Che colpa ne ho?

Si può avere (essere) di più!

Mangia! Magari i bambini africani potessero mangiare quello che hai tu nel piatto!”

 

Quanti di voi, quando erano bambini, hanno sentito i propri genitori o i propri parenti ripetergli questa o simili esortazioni ogniqualvolta si rifiutavano di mangiare questo o quell'alimento? E quanti di voi hanno pensato

 

“Che sciocchezza! Se anche mangiassi, i bambini africani non si sfamerebbero!”?

 

 

Tuttavia, indipendentemente dalle conclusioni logiche cui siete giunti, in quei momenti veniva fatta leva sulla tendenza innata dell’essere umano a paragonare la propria condizione con quella degli altri e a identificarsi con la sofferenza di chi “ha di meno” per attribuirsene la responsabilità.

 

Se i migliaia di chilometri che ci separano dall'Africa rendono, tutto sommato, meno difficoltoso distanziarsi anche emotivamente dall'esperienza di malnutrizione cronica altrui per concentrarsi, invece, sui propri legittimi bisogni e desideri, cosa succede quando chi “ha di meno” si trova più vicino? E se quel bambino africano fosse un fratellino malato, una madre depressa, un padre morto prematuramente, un partner che sta sperimentando un fallimento lavorativo o un caro amico che viene continuamente bocciato a un esame universitario che voi avete invece superato al primo appello con trenta e lode?

 

Empatizzare con la sofferenza di chi “ha di meno” è un aspetto generale dell’essere umano, ed è alla base di comportamenti altruistici che ci garantiscono la possibilità di creare relazioni reciprocamente appaganti e di collaborare per sollevarci dalla terribile prospettiva di dover fare tutto da soli, di sostenerci a vicenda nei momenti di difficoltà e di raggiungere obiettivi altrimenti impossibili da perseguire (dai più “naturali”, come mettere al mondo un figlio per garantire la sopravvivenza dei nostri geni, ai più “artificiali”, come costruire un ponte). Da qui, nasce l'esigenza di condividere le risorse che abbiamo a disposizione e l'idea alla base per cui se io prendo tanto, quel che prendo lo sottraggo alle persone che ho intorno. Pensate al frigo di casa vostra: se lo svuotaste, cosa potranno mangiare i vostri familiari fino alla prossima spesa?

 

Il problema è che questa tendenza emotiva, normale, universale e in principio utile, può divenire d'ostacolo nella misura in cui cessa di prendere in considerazione la realtà (vedi l'esempio dei bambini africani), si oppone ai bisogni egoistici e di auto-realizzazione (ugualmente normali, sani e indispensabili come quelli altruistici) o viene applicata a risorse “non limitate”: possiamo prendere quantità infinite di felicità, successo, soddisfazione, e non sarebbe di certo questo a togliere agli altri la possibilità di fare lo stesso. Quando ciò avviene, la persona sviluppa la convinzione, spesso inconscia, che se si “abbuffasse” di felicità/successo/soddisfazione, ecc. i suoi cari ne verrebbero privati.

 

Nelle sue diverse forme la realizzazione personale viene quindi percepita come una “torta” e prenderne una fetta non significa soltanto sfamarsi, ma vuol dire soprattutto toglierla agli altri.

La persona arriva così ad associare inconsciamente la propria condizione di benessere, potenziale e/o reale, a quella di malessere altrui, e finisce con il sentirsi in colpa, a livello inconscio, ad avere una sorte migliore e/o più talento, successo, soddisfazioni, ecc. dei propri cari: ciò significherebbe per lui deprivarli, far loro un torto. Questa idea può divenire una “bussola” che orienta le scelte e definisce il modo di stare al mondo.

 

A partire da ciò, che scenari si possono verificare?

  • Si può provare un forte senso di colpa nell'avere una sorte migliore di quella di una persona amata, sofferente o scomparsa.

  • Si possono sviluppare diverse forme di malessere (sintomi ansiosi, vissuti depressivi, disturbi somatici, ecc.).

  • Si possono sviluppare dei pensieri autosvalutanti.

  • Si possono assumere dei comportamenti autosabotanti (boicottare i propri successi, rinunciare senza un motivo apparente a una propria passione, bloccare sul nascere una possibile relazione sentimentale soddisfacente, ecc.).

Le diverse forme di malessere, i pensieri autosvalutanti e i comportamenti autosabotanti finiscono con il danneggiare se stessi e possono rappresentare delle condotte di espiazione che hanno l’obiettivo di “cancellare” o quantomeno rendere più tollerabile il senso di colpa inconscio con cui si convive per il fatto di “avere di più”. Non è affatto indispensabile, e di fatti spesso ciò non avviene, che ci si senta in colpa anche consapevolmente.

 

Due esempi:

 

Filippo ha iniziato a soffrire di attacchi di panico subito dopo aver vinto il dottorato che aveva sempre desiderato. Suo padre era stato colpito da un'ischemia che l'aveva reso gravemente disabile il giorno successivo alla discussione della sua tesi di laurea: inconsciamente aveva associato il suo successo alla malattia del padre.

 

Margherita svolge un lavoro non qualificato, sebbene sia laureata. Ogni volta che ottiene un riconoscimento sul posto di lavoro o una soddisfazione personale, lamenta emicranie e dermatiti. Malgrado le sue capacità, ripete continuamente a se stessa di non essere abbastanza intelligente e preparata. Sorella minore di una ragazza con Sindrome di Down, aveva inconsciamente associato le sue possibilità di successo a quelle negate in partenza della sorella.

 

Spesso, però, non sono unicamente le contingenze che portano ad associare il benessere personale alla sofferenza altrui, ma all'origine di tale associazione è possibile rintracciare la presenza di relazioni con genitori, parenti e/o figure di riferimento che, in modo più o meno esplicito, adottano comportamenti “sofferenti” e/o atteggiamenti di diverso tipo (vittimismo, mancati festeggiamenti, invidia, ecc.) che ci fanno sentire in colpa se pensiamo a noi stessi, ci dedichiamo ai nostri interessi e godiamo di un nostro traguardo.

 

Due esempi:

 

Flavia è bloccata da due anni con la tesi di laurea. Ogni giorno si siede davanti alla scrivania del computer, ma avverte un’improvvisa stanchezza, cui segue una grande irritazione. Quando F. era bambina, la madre, una donna gravemente depressa, con la tendenza a fare la vittima e a catalizzare l’attenzione sui propri bisogni, le impediva di festeggiare i compleanni perché non aveva le forze per alzarsi dal letto e organizzare le feste: F. aveva così inconsciamente associato la sua realizzazione personale e professionale alla sofferenza della madre.

 

Valeria ha una vita sentimentale insoddisfacente: quando finalmente incontra degli uomini sensibili avverte una sensazione di panico e un senso di soffocamento. È cresciuta con un padre che assumeva un atteggiamento violento con lei, con la madre e con le due sorelle minori. Quando, stufa di questo trattamento, ha deciso di allontanarsi da casa, la madre in lacrime le ha urlato “Non vorrai mica abbandonarci qui con lui!”. La sintomatologia esprime il senso di colpa inconscio che si porta dentro per aver provato ad avere una vita relazionale migliore della madre e delle sorelle.

 

Negli esempi riportati, la logica alla base è sempre la stessa: avere più degli altri o versare in condizioni migliori viene, spesso inconsapevolmente, associato a un senso di ingiustizia, di iniquità, come se ciò che si ha (fortuna, talento, successo, soddisfazioni, ecc.) fosse stato tolto a qualcun altro. Questo particolare tipo di senso di colpa inconscio viene chiamato “senso di colpa del sopravvissuto”.

 

Contattare uno psicologo potrebbe aiutarti a:

  • prestare attenzione ai tuoi bisogni e ai tuoi desideri

  • comprendere e trasformare la tua sofferenza, impedendoti di autosabotarti inconsciamente

  • riconoscere, liberare e utilizzare il tuo talento per perseguire i tuoi obiettivi

  • instaurare e/o vivere una relazione sentimentale appagante

  • godere pienamente dei traguardi che raggiungi e delle soddisfazioni che la vita ti riserva

Si può avere (essere) di più!

 

Dott. Emanuele D’Ammando